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  • Immagine del redattoreRosa Colucci

Professionisti e formazione virtuosa: un caso pratico, anzi due


L’avvocatura italiana era già ammalata ben prima del Covid, così come anche la nostra economia nazionale, che aveva smesso di crescere in maniera sana subito dopo il miracolo economico dell’industrializzazione e della ricostruzione post-bellica, quando la competizione era limitata perché la domanda superava l’offerta e la capacità produttiva.

A partire dagli anni 80 il modello di crescita dell’industria italiana iniziò a perdere colpi, nonostante una drammatica accelerazione della spesa pubblica desse l’illusione agli italiani di continuare su un cammino di successo: cresceva il reddito pro capite, cresceva il numero dei laureati e quindi anche dei professionisti e degli avvocati in particolare, che trovavano sbocco lavorativo nella pubblica amministrazione, nelle banche e nella grande industria, e in migliaia di studi legali.

Negli anni 90 iniziò l’arresto della crescita: grazie ai risparmi accumulati dalle famiglie i figli continuavano ad avere uno stile di vita superiore a quello dei genitori, si laureavano in tantissimi ma il lavoro di qualità scarseggiava sempre di più.

Intanto – in parallelo con l’infragilirsi dell’economia - si compiva un altro processo dannosissimo, ovvero la progressiva distruzione della scuola e dell’università come luoghi in cui raggiungere un livello effettivo di formazione, con la conseguente inflazione dei titoli di studio: una “scuola senza qualità”che ha abbassato notevolmente gli standard dei suoi percorsi di studio facendo credere a molti, una volta raggiunto un titolo, di essere in possesso di abilità e talenti che il mondo del lavoro non solo non scorge ma nemmeno riconosce.

Il vero problema dell’avvocatura italiana non è l’avvocatura stessa ma le condizioni socioeconomiche in cui lavora e vive, anzi tenta di sopravvivere. In Italia ci sono un milione e mezzo di liberi professionisti assoggettati alla regolamentazione degli ordini professionali: avvocati, architetti, ingegneri, commercialisti e geometri che all’estero rappresentano spesso l’elite delle società e vantano lì redditi nettamente più alti della media. In Italia invece le retribuzioni medie dei professionisti sono molto più basse: questo perché all’estero non sono autonomi ma lavorano in grandi aziende, grandi studi professionali, grandi strutture pubbliche, mentre qui l’assenza di tali poli penalizza pesantemente perché manca la domanda di grandi studi di qualità, nonché la possibilità di assumerli al loro interno.

Ma non sono solo le caratteristiche dell’economia italiana a favorire il nanismo degli studi professionali. C’è anche la conformazione elefantiaca della giurisdizione ed ecco che i 250 mila avvocati italiani, soprattutto al sud, vivono peggio dei loro 60mila colleghi francesi e dei 150mila colleghi tedeschi. Anche prima della pandemia il loro futuro era fortemente a rischio perché la rivoluzione digitale eliminerà moltissime delle operazioni standardizzate. Ecco quindi che il vero valore proverrà da quegli avvocati capaci di lavorare in team di specialisti, cosa che il piccolo avvocato non è in grado di fare.

Se il microcosmo dell’avvocatura risente di dinamiche generali della nostra economia e società, ecco perchè il ruolo della politica forense è fondamentale, come lo è anche quello della politica generalista: ora è necessario far nascere un nuovo tipo di capitalismo, certamente più etico del precedente e sicuramente diverso, in modo che l’avvocatura abbia un bacino da cui attingere diverso rispetto a quello finora imperante del piccolo cliente. È necessario anche cambiare la formazione, a partire da quella universitaria per passare poi – nel caso che ci interessa maggiormente – a una formazione professionale che sia all’altezza delle opportunità che il mercato offre.

Proprio in tal senso, ecco quali sono stati i motivi principali d’ispirazione per la nascita di due poli associazionistici come l’Osservatorio del Diritto agroalimentare e vitivinicolo e l’Istituto nazionale per il Diritto dell’arte e dei beni culturali, entrambi fondati a partire dal capitale umano e professionale creatosi dai corsi di alta formazione organizzati dalla testata “Avvocati”. La ragione d’essere che muove questi due enti è la volontà di tutelare e valorizzare quanto di più bello e buono abbiamo nel nostro Paese, promuovendo la cultura del diritto ognuno nel proprio ambito d’interesse – che molto spesso s’intreccia a sistema con l’altro, non solo nei metodi.

Le due associazioni, attraverso la vocazione formativa che colma un vuoto finora rimasto incredibilmente scoperto anche nella recente riforma delle specializzazioni forensi, mirano a valorizzare eccellenze professionali sui territori, mettendo a disposizione un patrimonio di competenze e un network di relazioni, favorendo la costruzione di competenze trasversali. In tal modo non solo si risulta più competitivi nei riguardi del mercato ma anzi si crea il mercato stesso - o almeno nuove frontiere di esso.

Rosa Colucci

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